La Nave di Magan
Trent'anni fa, Maurizio Tosi, allora giovane archeologo dell'Istituto per lo studio del Medio ed Estremo Oriente (Is.MEO), si trovava a esplorare un territorio vergine e pressoché sconosciuto all'archeologia, il sultanato dell'Oman.
Dopo numerose campagne di scavo e l'apertura di 400 tombe, nel 1984 aveva portato alla luce una civiltà sconosciuta, quella di Magan (antico nome dell'Oman), creata da pescatori e marinai dell'Età del Bronzo ribattezzati Popolo delle Tartarughe, noti ai Sumeri come la gente del "Mare Inferiore". Quello stesso anno, nel sito di Ras al-Jinz, Tosi aveva scoperto un documento molto importante: un coccio triangolare con i segni graffiti di una scrittura protoindiana di Harappa e Mohenjo Daro.
Era l'indizio inequivocabile che la rotta del monsone indiano era stata percorsa tremila anni prima delle vele romane.
Qualche anno dopo e a poca distanza dal luogo del primo rinvenimento, comparvero dei pezzi di bitume modellati su stuoie e fasci di canne legati con corde vegetali. A prima vista potevano essere i resti di un intonaco impermeabile per capanne, ma in quasi metà dei frammenti si trovarono anche resti di Cirripedi e di Teredini, dei crostacei che infestano gli scafi delle navi immerse a lungo nei mari tropicali. Quei frammenti rappresentavano dunque quanto rimaneva della parte calafatata di una nave dell'Età del Bronzo.
Parallelamente i depositi del Louvre segnalano il ritrovamento di una tavoletta della fine del III millennio a.C. proveniente da Girsu, uno dei porti sumeri del Mare Inferiore, che elencava dettagliatamente i materiali necessari per costruire una delle navi calafatate di Magan": bitume, legno di palma, diversi tipi di canne e corde.
Fu a questo punto che prese forma un ambizioso progetto di archeologia sperimentale che coinvolse L'Is.MEO, il Centro Studi Ricerche Ligabue e il sultano dell'Oman: ricostruire una di queste navi e verificarne la tenuta cabotando lungo la Gedrosia, fino alle foci dell'Indo. Era il 1995.
Per tentare una ricostruzione della "nave nera", occorreva però trovare un esperto di navigazione, e in particolare di navigazione antica. La scelta cadde sull'americano Tom Vosmer, skipper, carpentiere e storico della navigazione. Era stao lui a costruire la nave di Sindbad e quella di Giasone, servite all'irlandese Tim Severin per effettuare viaggi dimostrativi fortemente spettacolari. Vosmer accettò con entusiasmo.
Nacque così la "Magan" nei vecchi cantieri navali della città di Sur, nella parte orientale del Sultanato d'Oman, tra marzo e settembre del 2005. A Salalah, nella regione meridionale, sono state raccolte circa 10 tonnellate di canne. Per comporre le parti dello scafo, le canne sono state legate con corde di fibra di palma da dattero in fasci di 10 centimetri di diametro per una lunghezza massima di 16 metri. La struttura era composta da circa 50 fasci legati trasversalmente a 40 ordinate di canne e pochi bagli di rinforzo in legno, per una lunghezza di 12 metri, una larghezza massima di 4 e un'altezza, in prossimità delle punte, di 3 metri. La vela, di forma quadrata, era di lana, filata e tessuta artigianalmente in un villaggio dell'Oman.
L'ultima fase, la più delicata e critica della costruzione, era rappresentata dall'applicazione dello strato di bitume. È stato questo il punto debole di tutto il progetto e probabilmente la causa prima del suo insuccesso.
Con il suo scafo di canne intrecciate e bitume, ricostruito secondo un modello vecchio di 5000 anni, la "nave nera" avrebbe dimostrato che la rotta dei monsoni tra l'Africa e l'India era conosciuta dai popoli sudarabici dell'Età del Bronzo e che imbarcazioni simili a quelle che ancora oggi sono utilizzate nelle paludi tra il Tigri e l'Eufrate, nel sud dell'Iraq, erano in grado di alimentare scambi e commerci tra la Mesopotamia, la penisola arabica e la Valle dell'Indo.
Il naufragio, avvenuto il 7 settembre 2005 a poche decine di miglia dal porto di Sur, nell'Oman, è stato un evidente insuccesso, ma gli occhi dello storico riescono a vedere comunque, nel tentativo effettuato, un motivo positivo di riflessione perché ora si sa che a tradire fu proprio il sistema di calafataggio.
"È accaduto chissà quante altre volte agli albori della marineria antica e l'uomo non si è per questo arreso - commenta Tosi - E nemmeno noi vogliamo arrenderci: stiamo già allestendo una nuova imbarcazione".
Cenno a parte merita il trasporto pesante che, a partire da Sargon di Akkad, è testimoniato dall'importazione di grandi blocchi di pietra pregiata destinati soprattutto all'erezione di steli monumentali.
In Mesopotamia, terra di origine alluvionale, la quasi totale assenza di pietra da costruzione di buona qualità sembra aver ostacolato non solo lo sviluppo di un'architettura in pietra, ma anche dell'arte scultorea (PALLIS 1956, p. 712). Con questo non si intende dire che grandi blocchi di pietra non vennero mai trasportati sul Tigri e sull'Eufrate fino alle prime grandi città sumere, ma semplicemente che si trattava di un evento abbastanza raro.
È attestato che Gudea, governatore di Lagash, vissuto intorno al 2500 a.C., fece trasportare da Biridjik la pietra e dalle montagne dell'Antitauro il marmo necessari alla costruzione del suo tempio. Probabilmente il trasporto avvenne su zattere lungo aste fluviali (HAWKES E. WOOLLEY 1963, p. 619). Ur Nammu, re di Ur, fece portare in città, intorno al 2100 a.C., una grande lastra di calcare bianco su cui fece scolpire, a registri sovrapposti, la scena della sua investitura divina da parte degli dei (LEGRAIN 1927; MALLOWAN 1965, P. NO). La lastra è alta circa 3 m, larga circa 1,5 m e spessa 30 cm e il suo peso originario doveva raggiungere le 3,8 t.
Samsuiluna, re di Babilonia (1749-1712 a.C.), si vantava di aver portato dalle montagne dell'Armenia con delle slitte e una zattera un blocco di pietra lungo 11 metri del peso di 80 talenti. Considerando che un talento corrisponde a circa 30 kg, il blocco doveva pesare quasi due tonnellate e mezzo (HAWKES E WOOLLEY 1963, p. 618). In cambio egli aveva mandato - a dorso d'asino - delle stoffe di fabbricazione babilonese. È un passo interessante anche perché ci permette di capire che a Ur, fin dal tempo dei Sumeri, vi era una forte produzione di lana di pecora con la quale si fabbricavano stoffe e tappeti molto apprezzati dai popoli delle montagne.
Ora, il trasporto di questo tipo di carico pesante presupponeva un adeguato apparato tecnico e una manodopera sufficiente e sufficientemente motivata.
Di seguito offriamo una lista dei semplici e vari congegni per ridurre la fatica e moltiplicare la forza che potevano essere utilizzati sulla scorta delle conoscenze allora disponibili in Mesopotamia e nell'Elam.
Per il trasporto a terra c'erano la slitta, le funi, le traversine di legno (talvota lubrificate con acqua, olio o sterco bovino) e le leve. Per il trasporto sull'acqua venivano usate zattere o chiatte, o, forse, si sospendeva il carico tra due barche. Non si utilizzavano né cilindri di legno, né cuscinetti a sfere di pietra poiché i pesi eccessivi li avrebbero deformati o conficcati nel terreno. Per alzare o sollevare c'era il cuneo, per bloccare si usava la pietra o il legno, la leva e il piano inclinato, il "bilanciere" egiziano e l'"argano spagnolo", che funzionavano con lo stesso principio del vericello. L'uso delle leve è provato dalle protuberanze o bugne riscontrabili sulle pietre.
Un altro metodo possibile, con numerose varianti, per sollevare le pietre al di sopra del livello del terreno, era farle oscillare o inclinare, inserire un cuneo sotto la parte sollevata, poi sollevare l'altra estremità della base e inserire un altro cuneo. Il cosiddetto "bilanciere" egiziano, del quale sono stati rinvenuti alcuni modellini, potrebbe essere stato usato a tale scopo. Brunes (1967) ipotizza una variante con due fulcri posti sotto il punto di equilibrio della pietra: si applica del peso ad una estremità per sollevare l'estremità opposta e si pongono dei blocchi sotto il fulcro liberato e l'estremità sollevata.
Un fattore difficile da accertare e probabilmente impossibile da provare, cercando di individuarlo a questa distanza di tempo, è quello che ha a che fare con l'escercizio dell'autorità. Si potrebbe argomentare che, quando il potere è concentrato nelle mani di pochi, che si tratti di capi religiosi o laici, il possesso tacito o riconosciuto del controllo dell'autorità sia insufficiente al mantenimento dell'autorità stessa. Il potere el'autorità infatti, per essere efficacemente mantenuti, devono essere dimostrati. Esistono diversi modi per farlo: la conquista militare è un sistema, l'impiego in grandi opere pubbliche delle energie umane in esubero è un altro.
Di conseguenza si può non solo affermare che le cocietà impegnate nel trasporto di grandi pietre si reggevano su un'economia di sussistenza basata sull'agricoltura, ma anche che la maggior parte delle società che hanno trasportato, o trasportano, megaliti, erano organizzate in classi e che le realizzazioni, il più delle volte straordinarie, da esse compiute, ebbero spesso, anche se non sempre, uno scopo religioso.
È quindi grazie ad una combinazione di autorità politica, di sviluppo demografico, dell'idea di servire lo stato e la religione, della dsponibilità di eccedenze alimentari e di tempo derivanti da un'economia agricola efficiente, e di un corpo di specialisti in grado di eseguire le varie funzioni qualificate richieste, che fu possibile il trasporto e l'utilizzo di grandi blocchi di pietra da utilizzare per la costruzione degli edifici e dei monumenti che oggi tanto ci affascinano.
Lo sviluppo degli scambi commerciali influenzò profondamente la cultura e la scienza. Basti pensare che determinò la nascita della scrittura e l' "invenzione" dei numeri, grazie ai quali non solo fu possibile contabilizzare ma anche prevedere e programmare le operazioni di mercato.
Per questo Gordon Childe sosteneva a ragione che: "Le regole aritmetiche e geometriche applicate dagli scribi sumerici sono i veri prototipi delle "leggi" quantitative della scienza moderna. Esse riducevano a una forma numerica generalizzata relazioni che erano state osservate nella realtà e misurate fra classi di oggetti nel mondo esterno. Esse dicevano agli uomini che cosa dovevano fare allo scopo di ottenere un risultato desiderato. Ovviamente non è necessario che cerchiamo i nomi degli scopritori di queste leggi. Esse sono troppo evidentemente i prodotti sociali generati dai bisogni di una società impegnata nella rivoluzione urbana e scoperti col contributo dell'attrezzatura spirituale prodotta dalla rivoluzione" (GORDON CHILDE: 1942).